SALARIO MINIMO: SI O NO, E PERCHE’ ?
Si dibatte in questi giorni di metà Luglio 2023. Lo propone la sinistra; la destra lo rifiuta, ma chi ha ragione? La risposta non è scontata, e quel che sento in TV da parte dei soliti noti denota l’abituale assenza di visione sintetica, ma complessiva, dei termini del problema.
Facciamo allora qualche riflessione.
Immaginare che, in un dato momento, ci sia gente costretta a lavorare per pochi spiccioli in rapporto ai salari medi correnti, induce a pensare allo sfruttamento del lavoro, una condizione che in una società civile va rigettata. Un principio, una scelta; ma è davvero una scelta a favore dei lavoratori?
Ho sentito dire (da destra) che il salario minimo entrerebbe in conflitto con i contratti collettivi di lavoro.
E in che modo? Se il contratto collettivo prevede una paga oraria superiore al salario minimo, quello viene applicato. Quindi dove sta il problema? E se esiste un salario minimo, la contrattazione collettiva non concorderà certamente una paga oraria inferiore al salario minimo di legge. Quindi dove sta il problema?
Ho sentito dire che i contratti collettivi, in Italia, superano l’80% dei contratti di lavoro in essere.
Quindi il salario minimo riguarderebbe il 20% restante dei lavoratori, non tutelato da contratti collettivi, dai sindacati, quindi soggetto a forme contrattuali anomale, se presenti, e non addirittura assenti. Un salario minimo per legge nazionale, almeno, assicurerebbe a questa fascia di lavoratori un trattamento salariale forse non soddisfacente ma non da strozzino. Quindi perché no?
Ma ci sono anche altre considerazioni da fare, specie in un periodi di inflazione elevata.
1. L’inflazione svaluta rapidamente il potere d’acquisto del salario minimo, che dovrebbe venire aggiornato su base annuale, col rischio di entrare in conflitto con i trattamenti salariali della contrattazione collettiva, se i rinnovi contrattuali vanno oltre l’anno solare, come è in genere.
2. La pressione sui salari è sempre, come ovvio, verso una crescita, che partirebbe dal salario minimo per allontanarsene il più possibile, in salita.
Ma un salario non esprime un potere d’acquisto, ciò che più conta, e la pressione al rialzo non porta di necessaria conseguenza un aumento del potere d’acquisto, ma alimenta l’inflazione.
Il meccanismo d’inseguimento salari – inflazione è stato ben sperimentato in Italia decenni fa, con la cosiddetta “scala mobile” e questo meccanismo ha alimentato l’inflazione per anni, inflazione che poi si è attenuata e quasi spenta con la sua abolizione e con il passaggio Lira-Euro.
3. Il potere d’acquisto dei salari, unico riferimento che abbia un senso per dire quale possa essere un salario minimo, dipende anche dai salari stessi, sulla base dei quali si forma il costo di un prodotto e quindi il suo prezzo al consumo.
Può apparire paradossale ma dimezzare TUTTI i salari potrebbe persino determinare un aumento del loro potere d’acquisto, attraverso un dimezzamento della componente lavoro del costo di produzione.
Si potrebbe obiettare che i produttori potrebbero anche non riversare il minor costo del lavoro sul prezzo finale dei prodotti, ed è vero, ma se non lo facessero verrebbe a mancare la base di mercato a cui rivolgere le vendite. In realtà accadrebbe altro: cambierebbe il mix import/export di molte merci, perché al mercato italiano potrebbe convenire l’acquisto di prodotti locali rispetto a quelli di importazione. Il risultato potrebbe essere l’aumento del potere d’acquisto di salari più bassi.
Questo scenario ipotetico e non realistico serve a far capire come ciò che conta veramente è agire sui fattori della produzione nazionale per tentare di migliorare il mix import/export e di rendere le produzioni nazionali più attraenti, economicamente, per i compratori nazionali oltre che stranieri.
Qui la destra ragiona in chiave di produttività, un termine abusato, che dipende più dalle aziende che dai lavoratori, e sul quale comunque si può ragionare per aziende medio grandi, ma non per la grande massa di piccole partite IVA con qualche dipendente, e comunque per mansioni che non siano elementari, perché su queste non si può ragionare di produttività individuale più di tanto, salvo scivolare nel famoso sfruttamento del lavoro umano.
La mia conclusione è che non si possa generalizzare, ideologicamente, una norma su un salario minimo, ma che si possa e si debba farlo limitatamente a quelle attività in cui non esistono leve per migliorare la produttività, cioè il costo del lavoro per unità prodotta, come accade nel mondo dei servizi, specie quelli più umili, in agricoltura e nel campo dei trasporti leggeri (vedasi Amazon), oltre che nelle piccole attività, anche commerciali, al di sotto di un certo numero di dipendenti.
E’ vero che alcuni mestieri si reggono su un costo del lavoro vergognoso eppure sopportato dai lavoratori, e che se il costo si alzasse alcune di queste attività finirebbero di esistere, aumentando il numero dei disoccupati, ma forse, in un paese che voglia essere civile, questo è un prezzo da pagare, e gli sforzi vanno concentrati nella promozione, con altri strumenti, anche fiscali, di attività produttive e commerciali che abbiano un valore aggiunto sufficiente a sostenere un costo del lavoro superiore al minimo stabilito soltanto per le categorie non protette.
Ing. Franco Puglia
15 Luglio 2023