Ulteriori informazioni in merito a queste tematiche su :
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Per superare i problemi del sistema previdenziale italiano occorre partire a monte, non tappare buchi a valle. Partiamo dal COSA SERVE :
1) Garantire un reddito a chi, anziano, non è più in grado, o non se la sente più, di esercitare la sua attività lavorativa.
2) Disporre di un “monte pensioni” da distribuire ai pensionati tutti
3) Limitare il trattamento pensionistico ad un reddito massimo annuo, congruente con i versamenti pensionistici effettuati dall’interessato.
4) Separare nettamente previdenza ed assistenza, cioè tanto le fonti di entrata che i trattamenti in uscita scorrelati dalla sola e semplice attività lavorativa e sua cessazione.
Il punto 1) implica una libera scelta del lavoratore in merito alla sua età pensionabile, senza porre un limite inferiore, se non uno molto ragionevole (non 30 anni di età …) ma calcolando l’importo della pensione erogata sulla base della contribuzione versata, in quantità e durata, ed in base all’aspettativa di vita residua.
L’essenziale è l’equità del calcolo di ripartizione tra i beneficiari; poi uno potrebbe anche andare in pensione a 50 anni, se accettasse una pensione di importo quasi trascurabile …
Il punto 2) introduce la scelta tra i due criteri pensionistici possibili (restando nel discorso pubblico e collettivo) :
a) Ripartizione, come nel sistema attuale
b) Capitalizzazione
Io sono a favore della ripartizione, perchè la capitalizzazione si presta ad aumentare l’incertezza futura e presenta fattori di rischio per il capitale (valutario, svalutativo, fallimentare, ecc, ecc).
Inoltre una capitalizzazione del risparmio può essere fatta da chiunque a modo suo, con istituzioni private.
La ripartizione, invece, se correttamente impostata (non come adesso) offre una sicurezza intrinseca ed è strutturalmente in equilibrio, a condizione che :
1) La distribuzione delle pensioni su base annua equivalga alla raccolta delle contribuzioni, sulla medesima base annua.
2) Gli importi delle pensioni distribuite non siano fissi ma variabili, quote pro capite del monte contributi annuo raccolto. Significa che, maggiore la raccolta (per maggiore reddito nazionale a seguito di maggior forza lavoro o maggiore redditività media del lavoro) maggiori le pensioni distribuite, e viceversa.
Un tale sistema stimola ad investire sul futuro e sulle nuove generazioni, perché più numerose e produttive saranno, maggiore sarà il vantaggio pensionistico per i loro padri.
Quote di ripartizione: in base ad un algoritmo che tenga conto di anni lavorati, contribuzione, aspettativa di vita, numero di beneficiari, da ricalcolare ogni anno.
La ripartizione deve prevedere una quota fissa di contribuzione previdenziale (quale che sia) a carico di ogni reddito da lavoro dipendente o autonomo.
Il punto 3) è ovvio : tetto alla contribuzione e quindi al trattamento pensionistico futuro. Chi dispone di maggiori risorse economiche può integrare con capitalizzazione privata.
Il punto 4) vuole separare nettamente tutto ciò che è VERA previdenza, equivalente ad una capitalizzazione privata, anche se derivata invece da un sistema a ripartizione, da tutto ciò che è assistenza, a qualsiasi titolo fornita, non escluse le pensioni di reversibilità, che sono un reddito post mortem di chi ha contribuito al sistema col suo lavoro.
L’assistenza (invalidità, reversibilità ecc ) deve essere a carico solo e soltanto della fiscalità generale, con gestione separata ed indipendente.
Un discorso a parte meritano i trattamenti pensionistici dei dipendenti pubblici: i loro versamenti previdenziali non sono reali, ma formali, in quanto il loro reddito è a carico della fiscalità, quindi un dipendente pubblico non percepisce mai uno stipendio “lordo” ma solo e soltanto un netto, dedotte tasse, contribuzione INPS e quant’altro. Infatti le trattenute fiscali e previdenziali sono soltanto un giro conto all’interno della macchina pubblica.
I numeri di INPS ci dicono che la pensione media degli ex dipendenti pubblici è pari al doppio di quella media degli ex dipendenti privati; è evidente che c’è qualche vistosa distorsione nei redditi del pubblico impiego rispetto al privato.
Le pensioni erogate agli ex dipendenti pubblici dipendono da una fonte di entrata (quella del settore privato) che non gli compete. Queste pensioni vanno invece spesate su un capitolo a parte della spesa pubblica, quindi ancora una volta a carico della fiscalità. Per equità, i trattamenti pensionistici del settore pubblico, in assenza di un VERO monte contributivo attuale, come nel caso dei privati, dovrebbero venire
perequati con quelli del settore privato, non in funzione dei redditi a suo tempo percepiti, evidentemente eccessivi, nella media, ma in relazione ai soli anni lavorati ed a categorie professionali da classificare e perequare con il settore privato.
Ing. Franco Puglia
15 Settembre 2016