28 Marzo 2024

Da quando esiste, l’umanità si è sempre interrogata sul destino del mondo, senza poter dare una risposta, ma spesso presagendo eventi che avevano un certo carattere di prevedibilità, perché alle azioni umane corrispondono conseguenze anche prevedibili, seppure non tutte. Il nostro destino, previsto da decenni, è il sovraffollamento del pianeta, che si è verificato in circa 50 anni, triplicando la popolazione mondiale.
Questo sovraffollamento non può essere privo di conseguenze:

  1. Esaurimento delle risorse naturali. Non si è ancora prodotto, a partire dal petrolio, ma è una conseguenza inevitabile, anche se non se ne può immaginare lo sviluppo.
    Intanto sta venendo a mancare una risorsa fondamentale: l’acqua, che scarseggia in molte aree del pianeta, anche se altre sono investite da nubifragi apocalittici.
  2. Riduzione della superficie delle foreste: gli esseri umani consumano legname da sempre, e questo consumo non è mai terminato. Oggi prosegue, abbattendo foreste per incendi naturali, ma più spesso dolosi, per guadagnare terra al pascolo di bestiame destinato a sfamare gli umani, quando non per sfruttare in altro modo il terreno liberato dagli alberi.
  3. Cambiamenti climatici, determinati dai cicli planetari naturali, geologici, ma anche con un contributo umano, che se non è il falso globale della CO2, che alimenta gli interessi della New Economy, può comunque venire alterato dalla produzione globale di energia, quale che ne sia la fonte, destinata ai consumi umani.
  4. Inquinamento di aria ed acque, determinato dalle diverse emissioni da combustione e dagli scarichi chimici e biologici, industriali e civili, nelle acque del pianeta.
  5. Diffusione della spazzatura, residuo delle lavorazioni umane, nei terreni, nelle acque, nei mari. Notizie incontrollate parlano di mari contaminati dalle “mascherine del Covid”, roba di appena ieri.
  6. Squilibri economici e sociali sempre più gravi, con il fallimento economico di paesi fragili (Venezuela, Argentina, ecc), conflitti sanguinosi ed insanabili in altri (Afganistan, Siria, ecc), e come minimo la forte e crescente divaricazione tra ricchi e poveri.
  7. Migrazioni di massa dal Sud a Nord del mondo, in senso geografico ed economico.
  8. Devastazioni ed epidemie, dalle locuste in Africa, al Sars-Cov-2 in tutto il mondo.
  9. Globalizzazione della circolazione di merci e persone, ed interdipendenza sempre più stretta delle diverse economie, causa prima della diffusione di patologie vecchie e nuove su scala planetaria, di cui l’ultima pandemia è il primo esempio di impatto globale pesantissimo.
  10. Crisi profonda e forse irreversibile delle democrazie, con lo sviluppo un poco ovunque di forme di governo autoritario che tendono a consolidarsi (Cina, Russia, Nordafrica, Venezuela, sono solo alcuni esempi, ma anche nelle democrazie occidentali l’autoritarismo tende a prendere piede, come in USA, Inghilterra, Austria, Spagna, Francia, Italia, ecc).

I LIMITI DEL PENSIERO LIBERALE

Prima di affrontare alcuni temi appare opportuno delimitare i confini entro i quali gli strumenti del pensiero liberale sono adeguati, e dove no. Il pensiero liberale è antico quanto l’essere umano, ed è fondato sul bisogno di LIBERTA’ e sulla affermazione del diritto inalienabile di ciascun essere umano a disporre della sua libertà senza limitazioni. Questo principio, tuttavia, si scontra subito con la REALTA’,
che esprime un altro principio inalienabile: quello di REALTA’, di cui le azioni umane, per determinare i risultati attesi, debbono tenere conto, mettendo in secondo piano altri principi.

Questo significa, ad esempio, che un essere umano, da solo, in assenza di un aiuto da parte dei suoi simili, difficilmente può sopravvivere in natura, dovendo confrontarsi con essa senza gli strumenti prodotti da insiemi umani più numerosi, le tribù, in origine, le organizzazioni sociali collettive nel mondo moderno. Questo costituisce un enorme limite all’esercizio del principio di libertà, perché inevitabilmente quella di ciascuno entra in conflitto con quella altrui.

Ecco quindi che abbiamo trovato i CONFINI del pensiero liberale, all’interno dei CONFINI SOCIALI entro i quali l’azione umana può essere esercitata.
Il pensiero liberale si rivolge più spesso ai temi della LIBERTA’ ECONOMICA, fondamentale per l’esercizio della libertà individuale in senso lato, perché la condizione economica di ogni essere umano ne condiziona pesantemente la libertà complessiva.
Una persona POVERA non è davvero libera, anche se non basta essere ricchi per essere liberi, ma aiuta.

Gli aspetti economici dei rapporti sociali non esauriscono certamente il panorama di espressione della libertà, che si esprime sul piano religioso (in termini di libera espressione, oppure di costrizione, o di conflitto con altre religioni), sul piano della libertà di espressione, condizionata dalle modalità di comunicazione, che possono renderla lesiva della sensibilità altrui, di chi volente o nolente riceve la comunicazione, sul piano della libertà di esistere per ciò che si è, sano o malato, intelligente o stupido, di una etnia o di un’altra, con una propria cultura oppure, un proprio modo di vedere le cose.
E la società, quale che sia, tende ad IMPORRE una visione ETICA generalizzata a tutta la popolazione, sia essa di stampo religioso o laico, etnico o culturale. Quindi emerge che possiamo individuare almeno due terreni principali di espressione del pensiero liberale in confronto diretto con il principio di realtà:
MONDO ECONOMICO e MONDO ETICO, e dobbiamo farlo all’interno degli SCENARI delineati nei 10 punti introduttivi.
Questi scenari, che esprimono la REALTA’ con cui dobbiamo confrontarci, introducono numerosi paletti alla nostra libertà di espressione ed azione, tanto sul piano economico che etico.
Possiamo tentare di esaminare quei 10 punti uno ad uno, identificando al loro interno gli aspetti etici ed economici ed introducendo nell’analisi e nelle proposte un atteggiamento ideologico di stampo liberale, in confronto diretto col principio di realtà.

1. Esaurimento delle risorse naturali. Non si è ancora prodotto, a partire dal petrolio, ma è una conseguenza inevitabile, anche se non se ne può immaginare lo sviluppo.
Intanto sta venendo a mancare una risorsa fondamentale: l’acqua, che scarseggia in molte aree del pianeta, anche se altre sono investite da nubifragi apocalittici.

Questo tema sembrava toccarci poco, prima della crisi russo-ucraina del 2022, perché abbiamo dimenticato le crisi di approvvigionamento petrolifero di alcuni decenni fa, non siamo direttamente coinvolti nello approvvigionamento di alcune materie prime destinate a produzioni che sono ormai fuori dai nostri orizzonti immediati (terre rare per elettronica) anche se la carenza d’acqua, invece, comincia a farsi sentire, e non solo nel mezzogiorno, ma anche al nord, nella stagione estiva, a causa della progressiva scomparsa dei grandi ghiacciai alpini ed alla siccità estiva. In passato, con risorse abbondanti in rapporto al consumo, il loro sfruttamento è stato abbondantemente demandato al PRIVATO, e tutt’ora lo sfruttamento di molte risorse petrolifere, me non tutte, è in mani private. Ma quando le risorse scarseggiano …

Qui serve una importante premessa, di cui tenere contro anche in seguito: in termini economici il pensiero liberale è fondato sull’iniziativa privata e sulla concorrenza. L’iniziativa privata, però, per sua natura, avendo come solo legittimo obiettivo il profitto d’impresa, mira al monopolio, eliminando la concorrenza. Più spesso non ci riesce, ma a volte si, soprattutto dove l’attività economica determina “monopoli naturali”, come i binari di una linea ferroviaria, o certe infrastrutture viabilistiche o di telecomunicazione. Dove esistono monopoli naturali, o si possono creare condizioni monopolistiche, l’iniziativa privata va seriamente controllata, anche se questo non significa necessariamente proprietà pubblica. Altrimenti il pensiero liberale va a farsi benedire, perché l’interesse di un solo privato è “privativo” nei confronti del medesimo interesse da parte di altri privati.

Una seconda importante premessa: la proprietà privata di un certo tipo di bene, se non in regime di massima concorrenza, e se i canali di approvvigionamento nazionale possono essere interrotti, determina una seria compromissione dell’interesse nazionale, che in questo caso coincide con l’interesse di TUTTI i singoli, privati cittadini, anche se viene descritto come interesse pubblico e quindi di Stato.
In questi casi è l’INTERESSE PUBBLICO che deve prevalere, attraverso lo Stato, garantendo al Paese la costante disponibilità dei beni indispensabili di cui TUTTI hanno bisogno.

Tornando alle materie prime, in particolare, ma non solo, alle fonti energetiche, l’Italia presenta da sempre elementi di debolezza, disponendo di scarse fonti sul suo territorio, ed oggi dipende molto da poche fonti energetiche per il gas naturale (prima la Russia e ancora il Nord Africa).
Le fonti di energia alternative (solare, eolico, per ora) non sono garantite da produzioni nazionali, anche se sono meno critiche come impatto complessivo, ma possono diventarlo con lo sviluppo di politiche espansive in questo settore, politiche in atto da anni, condizionando con gli interessi dei produttori lo stesso sviluppo nazionale nel suo insieme. Le politiche GREEN sono sospettate di collusione con interessi esterni, a scapito degli interessi, sempre esterni, dei fornitori di prodotti petroliferi.
Un approccio LIBERALE al problema può essere fondato solo e soltanto sulla trasparenza degli interessi in gioco, e dei costi che gravano sui contribuenti, sulla concorrenza tra le diverse fonti energetiche, senza favoritismi di fonte politica, senza mistificazioni di ordine ecologico derivate da manipolazioni parascientifiche.

Quanto all’approvvigionamento idrico, mi preme sottolineare un elemento, come premessa a quel che segue:

1. Lo SPRECO dell’acqua è spesso una mistificazione : TUTTA l’acqua che cade sulla terra con la pioggia, prima o poi finisce al mare; TUTTA! Il ciclo mare-evaporazione-nuvole-pioggia-terra è un ciclo continuo inesauribile (almeno questo!) ; ciò che cambia è la DISTRIBUZIONE delle piogge sul pianeta, che risparmia le zone desertiche e privilegia le zone più fredde e con maggiore forestazione.

2. Non possiamo modificare la distribuzione delle piogge sul pianeta, se non parzialmente, cercando di favorire lo sviluppo di vegetazione, dove possibile, perché questa favorisce in qualche misura la formazione degli addensamenti nuvolosi. Anche la raccolta delle acque in grandi bacini idrici favorisce la lenta evaporazione e le formazioni nuvolose con successiva ricaduta di piogge. In entrambi i casi la correlazione non è biunivoca: i venti atmosferici ed il clima nel suo insieme determinano gli eventi pluviali.

Detto questo, tutta l’acqua che riceviamo come pioggia, o come scioglimento delle riserve nevose e glaciali, in un modo o nell’altro finisce al mare, attraverso i fiumi, in superficie o sotterranei.
Lungo il percorso possiamo farne ciò che vogliamo, salvo alterarne colpevolmente la composizione chimica, quindi prelevando acqua pura e cercando di restituire acqua pura, in modo che anche gli utenti a valle del nostro prelievo godano del medesimo diritto di cui abbiamo goduto noi: prelevare acqua pulita.

Si sente spesso dire che gli acquedotti italiani sono dei colabrodo: meno male, così anche il terreno lungo il percorso riceve un poco d’acqua, e non soltanto le utenze collegate agli acquedotti. E tutta l’acqua che arriva, scenderà al mare, sia quella fuoriuscita dagli acquedotti che quella scaricata dagli utenti.
L’acqua persa dagli acquedotti NON è sprecata: il terreno è un utente come tutti gli altri, e in corso di siccità ha i suoi diritti. Altra cosa è se non arriva abbastanza acqua alle utenze “privilegiate” perché si perde lungo il percorso. Il problema si pone solo in questo caso ed i bacini di raccolta delle acque servono solo e quando occorre diluire nel tempo il flusso naturale delle acque, raccogliendone quando si presenta abbondante, e restituendola quando scarseggia.

L’acqua è tema di contesa tra controllo pubblico e privato. Dire l’acqua è di tutti equivale a dire anche che il petrolio è di tutti, cosa non vera. C’è tuttavia una differenza: senza petrolio si può sopravvivere; senza acqua no. E l’acqua arriva dal cielo (che è di tutti) oppure dalle riserve montane (che sono di tutti).
Ciò che invece NON è di tutti sono i dispositivi di raccolta e distribuzione delle acque, che possono essere pubblici o privati. Come scegliere? Il criterio a me pare semplice: se si costituisce una condizione monopolistica, il controllo dell’approvvigionamento idrico non può essere privato, ma nulla impedisce che il privato collabori con il “pubblico” mettendo a disposizione una infrastruttura di distribuzione d’acqua, in concessione, ad un prezzo convenuto, perché la distribuzione dell’acqua, potabile o irrigua o per uso industriale, ha comunque un costo, che ricade sull’utenza.

Se partiamo dal principio che lo Stato, cioè tutto ciò che è PUBBLICO, intervenga soltanto dove il privato, da solo, rischia di costituire un monopolio, o di condizionare un servizio indispensabile, allora lo stato NON DEVE GESTIRE DIRETTAMENTE I SERVIZI, salvo rare eccezioni, ma deve controllare che i diritti dell’utenza siano salvaguardati, permettendo quindi un “esercizio condizionato” delle attività di pubblico interesse. Va detto che in Italia lo Stato NON FA quello che dovrebbe fare in questi casi, infatti:
a) Gestisce in proprio, male, quello che dovrebbe affidare a specialisti, a condizioni rigorosamente controllate, con concessioni facilmente revocabili.
b) Affida in concessione servizi importanti, senza esercitare alcun serio controllo, né sotto il profilo tecnico né sotto quello economico; vedasi il caso delle Autostrade Italiane, regalate ai Benetton.

Quindi un approccio liberale alla gestione della distribuzione dell’acqua deve essere fondato su un affido in concessione di infrastrutture che restino di proprietà pubblica, ma gestite da privati quanto ad esercizio e manutenzione, mantenendo maestranze pubbliche dedicate ad un VERO controllo delle condizioni di esercizio della rete, come si dovrebbe fare per ogni infrastruttura di pubblico interesse.

2. Riduzione della superficie delle foreste: gli esseri umani consumano legname da sempre, e questo consumo non è mai terminato. Oggi prosegue, abbattendo foreste per incendi naturali, ma più spesso dolosi, per guadagnare terra al pascolo di bestiame destinato a sfamare gli umani, quando non per sfruttare in altro modo il terreno liberato dagli alberi.

La deforestazione del territorio nazionale è un problema GRAVE, concausa sicura di dissesto idrogeologico, che contribuisce alle alterazioni climatiche su scala locale e globale.
Pensiamo che una “climatologia politicamente orientata” sostiene l’origine esclusivamente antropica dei cambiamenti climatici, attribuendola ad un aumento di concentrazione dell’anidride carbonica (CO2) in atmosfera, prodotta dall’impiego di combustibili fossili. Questa medesima “scienza” suggerisce di “intrappolare sotto terra la CO2 in eccesso” prodotta dalle combustioni, dimenticando che la geologia lo ha già fatto nel corso di milioni di anni facendo catturare al mondo vegetale la CO2 atmosferica, indispensabile al suo sviluppo, e sequestrando il carbonio attraverso la morte e decomposizione vegetale come carbone, petrolio e gas naturale. Quindi, invece di immaginare tecnologie fantascientifiche di sequestro della CO2 gassosa, ci bastano le normali foreste, in progressiva scomparsa sul pianeta, per risolvere il problema, in qualsiasi ottica lo si voglia vedere.

Le foreste consumano CO2 atmosferica, consolidano il terreno con le loro radici profonde, costituiscono colonne di evaporazione che favoriscono lo sviluppo di nubi in ambito locale, e la raccolta di piogge e quindi acqua, producono ossigeno come prodotto di scarto della sintesi clorofilliana, ricostituendo le riserve atmosferiche di ossigeno necessarie alla vita animale, ed umana, oltre che alla combustione degli idrocarburi. Le foreste sono l’anello della catena nel ciclo naturale del carbonio, e quindi della vita planetaria, che stiamo gradualmente distruggendo.
La forestazione rappresenta in genere un interesse PUBBLICO e solo raramente privato.
Infatti la forestazione ha un COSTO di piantumazione e di occupazione del suolo, a cui più spesso non segue alcun ricavo e profitto, indispensabile per una attività privata. Fanno eccezione le foreste per la produzione di cellulosa (industria cartaria, legname da costruzione) e per il settore dell’arredamento.
In questo caso esiste una doppia utilità, nello sfruttamento del legname delle piante abbattute e nella funzione vegetale durante il periodo della crescita, a condizione che ad ogni abbattimento segua piantumazione. Un orientamento industriale in tal senso con un impiego crescente del legname come materiale da costruzione, anche abitativa, assolverebbe a funzioni di sviluppo economico ed anche di ordine ecologico sistemico, destituendo di ogni fondamento la “visione del mondo” di una certa “sinistra” pseudo ecologista ed ambientalista.
Questo punto segue, logicamente, il punto precedente che parla di riforestazione.

3. Cambiamenti climatici, determinati dai cicli planetari naturali, geologici, ma anche con un contributo umano, che se non è il falso globale della CO2, che alimenta gli interessi della New Economy, può comunque venire alterato dalla produzione globale di energia, quale che ne sia la fonte, destinata ai consumi umani.

Adesso entriamo più nel vivo della contesa intercontinentale sui cambiamenti climatici, sui gas clima alteranti prodotti dall’umanità e sulla necessità di abbattere il consumo di prodotti petroliferi introducendo una GREEN ECONOMY, fondata su energie rinnovabili, riduzione del trasporto privato di persone, se a motore, e più diffuso impiego del trasporto pubblico.
Su questi temi non emerge tanto il conflitto tra iniziativa privata e Stato, caro ai Liberali, anzi, qui privati e stati vanno a braccetto, perché ci sono interessi convergenti, almeno per molti privati, fautori della Green Economy. Emerge invece un tema squisitamente liberale che è la facoltà di scegliere le fonti energetiche o i mezzi di trasporto, libertà negata dalla Green Economy che cerca di costringere TUTTI all’interno della SUA visione. Che è fondata su un FALSO accreditato su scala mondiale da una organizzazione intergovernativa (IPCC) che non è ancora stata screditata come dovrebbe, e come sta accadendo ad OMS a seguito delle contraddizioni sulla questione pandemica.

Affermo su basi scientifiche che sia FALSO che la CO2 determini i cambiamenti climatici in atto.
Non sono il solo ad affermarlo: solo in Italia 500 studiosi hanno sottoscritto un documento in tal senso. Non a caso le forze politiche che cavalcano la tesi GREEN sono quelle della SINISTRA europea, mentre altrove nel mondo lo scetticismo sulle tesi IPCC predomina.

Premesso tutto questo, scontato il fatto che esistono cicli storici, secolari e millenari, di riscaldamento e raffreddamento planetario, con presenza umana e molto prima ancora, ed anche destituendo di fondamento scientifico la tesi sulla CO2 responsabile dei mutamenti del clima, resta il fatto che a livello planetario le attività umane consumano molta energia, quale che ne sia la fonte, e tutta questa energia si trasforma, alla fine dei processi, inevitabilmente, in calore dissipato in atmosfera, che si somma a quello introdotto dalla radiazione solare.
Quindi è VERO che l’umanità da un suo contributo al riscaldamento dell’atmosfera, ma è molto difficile determinare quanto sia, percentualmente, rispetto alla radiazione solare. Perciò, volendo essere ONESTI sotto il profilo scientifico, possiamo dire che ridurre i consumi energetici globali male non fa, anche se non significa che con questo il clima torni sui suoi passi.
E se la CO2 fosse un problema, e non lo è, la riforestazione massiccia del pianeta è la soluzione CERTAMENTE ECOLOGICA, quale che sia l’effetto della CO2.

A questo punto scendiamo sul terreno dell’economia, assumendo di avere RISOLTO il problema di ordine etico, ed occupiamoci di consumi energetici, in un’ottica liberale.
Ho detto che ogni forma di energia, quale che ne sia la fonte, contribuisce alla fine dei processi a riscaldare l’atmosfera, ANCHE L’ENERGIA IDROELETTRICA, perché l’elettricità così prodotta, alla fine, dopo utilizzo, diventa calore. Quindi cominciamo col dire una cosa : LIBERTA’ DI SCELTA DELLE FONTI ENERGETICHE, tenendo conto dei COSTI e della SICUREZZA delle fonti di approvvigionamento.

E qui casca l’asino delle ENERGIE ALTERNATIVE E RINNOVABILI, che sono tuttavia le benvenute, se messe sul mercato in concorrenza con qualsiasi altra fonte. Non metto in conto il NUCLEARE, almeno con le tecnologie note, perché le fonti di approvvigionamento dell’Uranio sono più selettive di quelle petrolifere e quindi non vedo perché non ricorrere alle fonti abituali, almeno a livello italiano, visto che se anche parliamo di inquinamento (e lo faremo in seguito) tra prodotti da combustione del petrolio e scorie radioattive il dilemma non si pone.
Quindi, restando sulle fonti energetiche note ed abituali, il tema diventa la distorsione del mercato indotta dagli INCENTIVI alle “fonti rinnovabili” (solare in particolare) che rinnovabile non è, perché lo è l’energia solare, ma non i pannelli solari, che non sono eterni, vanno smaltiti, con i problemi relativi, ed inducono un consumo di materie prime per ricostituirli. Naturalmente, invece, la politica al governo è largamente orientata verso un sviluppo indefinito di queste fonti a scapito di quelle petrolifere tradizionali.
In chiave liberale noi non dobbiamo pagare in bolletta gli incentivi ad una determinata fonte di energia, ma pagare i costi di produzione e distribuzione del nostro fornitore. Poi decida lui da chi gli conviene approvvigionarsi. E qui dobbiamo parlare del grottesco “mercato libero dell’energia” del nostro paese, dove in bolletta la quota energia “libera” è minima ed il grosso della bolletta sono costi fissi, tra cui incentivi, tasse e costi di distribuzione.

L’energia è, e DEVE ESSERE, una commodity come qualsiasi altra. Il suo prezzo deve essere determinato dal costo di produzione e di distribuzione, più IVA, senza altri balzelli.
I fornitori debbono essere liberi di approvvigionarsi dalle fonti che preferiscono.

Funzione dello Stato è garantire che attraverso la RETE di distribuzione (sia essa elettrica o gas) possa essere trasmessa abbastanza energia da poter soddisfare i consumi nazionali, e questo attraverso un CONTROLLO DI GARANZIA delle fonti estere, finalizzato al solo scopo di garantire l’autonomia energetica nazionale. Non possiamo trovarci nelle condizioni in cui ci ha precipitato la crisi tra Russia e Ucraina ….
La RETE di distribuzione, invece, è un monopolio naturale: all’utenza può arrivare una sola linea elettrica ed un solo tubo del gas. Qui torniamo al discorso già fatto in precedenza sul ruolo del pubblico e del privato, sulla distinzione tra proprietà e controllo della rete ed esercizio e manutenzione della stessa in concessione ai privati. E su questo tema vanno presi di petto gli aspetti delle PARTECIPATE pubbliche, società di diritto privato, concessionarie A VITA di un servizio pubblico, colluse col potere politico e infrastruttura di base a sostegno di una politica immutabile nel tempo nonostante i vari cambi di casacca.

4. Inquinamento di aria ed acque, determinato dalle diverse emissioni da combustione e dagli scarichi chimici e biologici, industriali e civili, nelle acque del pianeta.

Questo tema è di preminente interesse PUBBLICO, perché il privato, come tale, motivato al proprio profitto personale, determinato dall’uso dell’infrastruttura di produzione e trasporto a cui fa capo, è strutturalmente poco sensibile alla qualità dei suoi prodotti di scarto, ai quali diventa, invece, sensibile, quando interpreta il ruolo di consumatore. In questo campo occorre distinguere i tre settori principali di produzione di inquinati: agricolo, industriale, civile.

a) Settore agricolo: è con ogni probabilità, oggi, il settore che più contribuisce all’inquinamento delle acque e dei suoli, perché distribuisce sui terreni agricoli i fattori inquinanti, mentre l’industria, se correttamente operante, li smaltisce attraverso sistemi di depurazione.
Le fonti inquinanti sono essenzialmente concimi e diserbanti, che vengono dilavati dalle acque di irrigazione e piovane, poi canalizzate in corsi d’acqua e fiumi, sino al mare, liquami da deiezioni animali degli allevamenti bovini e suini, poi anche da pollame e ovini. Di minore impatto l’inquinamento determinato dall’impiego di combustibili per la produzione di energia.

b) Settore industriale: meno impattante di un tempo, almeno a livello di suolo ed acque; più significativo l’impatto sulla qualità dell’aria, anche se gli impianti di depurazione, ancora una volta, possono minimizzare gli effetti negativi del settore industriale.

c) Settore civile: con il maggiore impatto nei grandi centri urbani, a causa della concentrazione della produzione di inquinanti riversati in aria dagli impianti termici civili e dall’autotrazione.

L’intervento pubblico, per quanto attiene all’inquinamento, dovrebbe essere esclusivamente normativo, e così è, ma con una distorsione: il PUBBLICO pretende di imporre MODELLI di produzione e di consumo fondati su una visione più spesso ideologica, anche astratta, in quanto non concretamente applicabile su larga scala, come nel caso delle auto elettriche, o addirittura dell’abbandono dell’auto per spostarsi.
Se la produzione ed i consumi che ingenerano inquinanti competono ai privati, allora forse l’approccio più corretto sarebbe quello analogo alla “carbon tax” che risponde al criterio del “chi più inquina più paga”, ma lasciando al privato la scelta del sistema per riscaldarsi o il tipo di automezzo da usare.
Anche questo strumento, però, si presta ad un abuso di stampo ideologico.

In un’ottica liberale i sistemi vincenti dovrebbero essere imposti dalla concorrenza.
In questo caso, però, inquinare poco non è “premiante”, anzi, può essere un costo. Si potrebbe rovesciare la logica della “carbon tax” con una “pollution premium”, che incentivi l’uso di tecnologie più “pulite” con defiscalizzazioni (già oggi si fa saltuariamente qualcosa per le auto), ma si dovrebbe fare in maniera strutturale e stabile. Quando venne stimolato l’acquisto delle auto diesel perché “inquinavano meno della benzina” l’utente faceva i suoi conti in base al consumo ed ai costi del combustibile, alla durata del motore, ecc. Non comperava l’auto a gasolio perché “diesel è bello” ma perché gli conveniva.
E questo ci rimanda al grosso discorso della “politica fiscale” , che può essere una doppia leva:
– sostegno della spesa pubblica
– orientamento della spesa privata
E parlando di fisco, l’IVA è una imposta sui consumi che già oggi presenta diverse aliquote per cui già differenziando le aliquote in funzione della tipologia di consumo si può cercare di ridurre la produzione di inquinanti, senza ricorrere a politiche impositive come si sta facendo.

5. Diffusione della spazzatura, residuo delle lavorazioni umane, nei terreni, nelle acque, nei mari.

Notizie incontrollate parlano di mari contaminati dalle “mascherine del Covid”, roba di appena ieri e di oggi. Un problemone, in cui pubblico e privato giocano ruoli diversi: il privato produce rifiuti, il pubblico li raccoglie e smaltisce, a spese delle tasse. Smaltire i rifiuti è un COSTO considerevole, e ci sono spesso difficoltà tecniche di smaltimento.
Qui un approccio totalmente privatistico mi pare molto riduttivo: il privato produce quello che gli sembra più opportuno produrre e PAGA perché qualcuno smaltisca i suoi scarti. Non gli interessa come e dove.
Ed il privato è spesso noncurante di quell’ambiente del quale poi si lamenta quando lo trova sporco ed invaso dai rifiuti, che lui stesso disperde nell’ambiente, con disinvoltura.

I due elementi del problema sono la produzione di rifiuti ed il loro smaltimento. Ci si può concentrare solo sul secondo elemento, ma è un errore. La produzione di beni può avere come conseguenza la produzione di più o meno rifiuti. In funzione del tipo di materiali usati per produrre un bene, il suo rottame, o i suoi scarti di produzione, possono essere più o meno facilmente recuperabili, e cambiano i costi dello smaltimento.
Le esigenze di marketing hanno stimolato la produzione di manufatti sempre più sofisticati, ma meno facilmente smaltibili. Il grosso dei nostri rifiuti proviene dal settore dell’imballaggio.
Decenni fa i prodotti alimentari venivano venduti “sfusi” ; poi solo confezionati, e negli ultimi anni, nei centri commerciali, entrambe le cose. Il confezionamento è essenziale per la produzione di massa, alimentare e non. Ma il confezionamento può essere semplice, o composito. Alcuni materiali sono facilmente riciclabili; altri no.
In questi ultimi mesi è stata posta molta enfasi al problema della plastica abbandonata ovunque, non biodegradabile, ma capace di trasformarsi anche in piccoli frammenti ingeriti anche dagli animali, pesci in particolare. Qualcuno vuole abolire la plastica; non mi pare una soluzione sensata.
Molte materie plastiche si possono riciclare interamente. Il recupero potrebbe essere facilitato impiegando in prevalenza un solo tipo di materia plastica, o due, comunque poche, in modo da poterle facilmente selezionare nel recupero. Il cruscotto di un’auto (plastica) non finisce facilmente in mare; una bottiglia di acqua minerale, si.
Prima dell’avvento della plastica si faceva largo uso del vetro. Ma se il vetro finisce in mare, ci resta per sempre, anche se non si dissolve velocemente in frammenti. La riflessione sull’impiego dei materiali si dovrebbe fare, a livello normativo, quindi pubblico, in rapporto alla loro natura rispetto all’impiego. Quindi tutto ciò che, potenzialmente, rischia di essere disperso nell’ambiente, dovrebbe essere prodotto con materiali biodegradabili, a base di cellulosa impermeabilizzata, stile tetrapack, ma più facilmente degradabile del tetrapack. Per le confezioni che, invece, difficilmente si possono trovare fuori dai luoghi di produzione, distribuzione o consumo domestico, meglio materiali plastici monocomponente, da riciclare.

La Pubblica Amministrazione NON ha la competenza necessaria per orientare la produzione degli imballaggi: occorre fare, qui si, una sorta di Stati Generali dei produttori di materiali da imballaggio,
un settore importantissimo in Italia, dove siamo secondi solo alla Germania, per far formulare a loro le proposte tecnologicamente più sensate e sostenibili, sotto ogni profilo, fornendo alle aziende soltanto delle linee guida che indichino una direzione. Ma niente scelte preconcette.
Questo nel campo degli imballaggi: per quanto attiene invece agli scarichi di rifiuti industriali, nelle acque, nell’aria, o come residuo solido, le norme già ci sono, e forse c’è poco da aggiungere, salvo i CONTROLLI, una funzione che può essere solo pubblica, e che dimostra invece tutta la sua inefficienza con discariche abusive e nascoste, ad opera delle mafie, ed occhi bendati da parte di chi dovrebbe vedere.

6. Squilibri economici e sociali sempre più gravi, con il fallimento economico di paesi fragili
(Venezuela, Argentina, ecc), conflitti sanguinosi ed insanabili in altri (Afganistan, Siria, ecc),
e come minimo la forte e crescente divaricazione tra ricchi e poveri.

Questo è un tema che sovrasta tutti gli altri. Un tema caro, giustamente, alla “Sinistra” che dovrebbe, storicamente, rappresentare gli interessi dei più deboli nelle società umane.
I conflitti militari, tra stati o al loro interno, sono la conseguenza diretta di conflitti economici.
Nessuno spende un soldo per fare la guerra in un territorio desertico che non produce alcuna ricchezza. In assenza di petrolio, gas, minerali, ecc, un deserto non interessa a nessuno.
Il divario di ricchezza è sempre esistito, a memoria d’uomo.
Si è accentuato, nei tempi moderni? Difficile dirlo: basta paragonare la ricchezza della corte dei Faraoni Egizi e quella del popolo sottostante. Sono cambiati il numero dei ricchi (molti di più) e quello dei poveri (crescente, ma in un mondo che conta milioni di ricchi). Come ho spiegato più diffusamente altrove, il divario di ricchezza è la molla dello sviluppo. In sua assenza, in una popolazione fatta da individui che abbiano tutti il medesimo reddito, nessuno è in grado di acquistare il superfluo, e nessuno ha i mezzi per produrlo, per cui lo sviluppo resta a zero. Questo concetto, facile da assimilare per i liberali, è invece ostico per i socialisti. Tuttavia è MATEMATICO. Altra cosa, però, è stabilire QUANTO forte possa essere questo divario di ricchezza, quanto sia tollerabile, quanto possano essere diffuse la ricchezza o la povertà.

La povertà non fa comodo ai ricchi, almeno oggi, perché i poveri NON sono buoni consumatori.
Ed oggi la ricchezza è fondata sui consumi. Perciò serve un giusto equilibrio tra ricchi e poveri, come in natura tra predatori e prede. I “ricchi” non hanno interesse a favorire la povertà, tuttavia è vero che USANO i “poveri” come manodopera ad un costo conveniente per la loro attività, con l’obiettivo di fare il massimo profitto. Lo squilibrio nasce quando l’offerta di manodopera è abbondante, in rapporto alla domanda, e tanto più quanto si tratta di manodopera non qualificata, utile per certi lavori, ma per altri no. Una pericolosa distorsione del nostro sistema socio-economico sta nel fatto che troppo spesso, sempre più di frequente, le competenze risiedono nelle macchine, più che negli operatori, se parliamo di produzione e non di servizi. E le macchine significano CAPITALE, che è disponibile tra i “ricchi”, non tra i “poveri”. Perciò il produttore usa capitale, quindi macchine, e poi lavoro a basso costo.
Si salva, tra i lavoratori dipendenti, chi dispone di proprie competenze, indispensabili per produrre e far funzionare le macchine. Gli sviluppi più recenti, inoltre, ci hanno portato ad altri fattori di distorsione:

– la concentrazione delle produzioni nei paesi a basso costo di manodopera (Cina) con eventuale apporto
di capitali e tecnologie (competenze) in quei territori.
– la concentrazione della distribuzione delle merci attraverso pochi grandi centri di distribuzione (i centri
commerciali) e le grandi organizzazioni online (Amazon), che richiedono una manodopera
de-specializzata, come in una grande catena di montaggio di altri tempi.
– la proliferazione del terziario, privato e pubblico, che ha offerto uno sbocco per la produzione di reddito
nella burocrazia pubblica, nelle aziende di consulenza di ogni tipo (legale, tecnica, fiscale)
– una massa di popolazione diversamente assistita, con un reddito di provenienza pubblica, e quindi,
in ultima analisi, fiscale.

Questi fattori distorsivi hanno gradualmente ridotto le attività produttive e commerciali di dimensioni più piccole, strangolate da una concorrenza sempre più monopolistica, quindi molto poco “liberale” anche se, formalmente, opera in regime di concorrenza, ma con una concorrenza selezionata.
Il terziario, inoltre, costituisce in larga misura un COSTO sulle attività produttive primarie, e quindi rappresenta un fattore deprimente della nostra competitività su scala internazionale.
Il risultato di tutto questo lo troviamo in una composizione sociale anomala, con pochi produttori e distributori, una massa di impiegati nel terziario pubblico e privato, una massa ingente di assistiti. Purtroppo va detto che anche i pensionati rientrano tra gli assistiti, pur avendo ogni legittimo diritto di esserlo, avendo loro, a loro volta, svolto nei confronti delle generazioni precedenti quella funzione di sostegno economico che oggi viene chiesta, per loro, alle nuove generazioni.
Purtroppo, però, i rapporti dei diversi numeri sono impietosi e ci mostrano una base di produzione di reddito insufficiente, in larga misura formata da manodopera poco qualificata, ed una base produttiva ristretta, più o meno capitalizzata, spesso poco, ma che detiene il controllo della produzione di ricchezza, assediata dalla politica fiscale che pretende di redistribuirla secondo criteri politici, non di ordine economico.

7. Migrazioni di massa dal Sud a Nord del mondo, in senso geografico ed economico.

Gli squilibri economici hanno sempre prodotto migrazioni di massa, nel corso della Storia umana.
Questi squilibri erano determinati da ragioni climatiche (carestie) o belliche, ma comunque, in ultima analisi, economiche. Accadevano con lo spostamento frammentato di interi popoli, oppure con guerre di conquista armata, ma sempre con il medesimo fine. Oggi abbiamo di fronte a noi un pianeta in cui gli squilibri dello sviluppo sono evidenti ed eclatanti, anche se contraddittori. Dipendono da fattori culturali e religiosi che hanno ostacolato uno sviluppo in chiave occidentale (mondo islamico) oppure sono determinati da fattori geografici o climatici e territoriali (Africa). Ma anche squilibri politici intrecciati con quelli economici (Centro e Sud America) con popolazioni impreparate ad introiettare il modello di sviluppo economico industriale che ha invece sfondato in Oriente, Cina in testa, senza dimenticare prima il Giappone e poi la Korea del Sud. Di fronte a questi squilibri, ed alla pressione migratoria che inducono, gli occidentali reagiscono in due modi diametralmente opposti:
– col respingimento, da parte dei movimenti nazionalisti e in genere della destra politica
– col favoreggiamento dell’immigrazione, da parte del mondo cattolico, in buona misura, e della sinistra
politica terzomondista, su base ideologica preconfezionata.

Il nostro mondo “globalizzato” ha bisogno di scambi economici intensi con tutti i paesi del mondo.
Questi scambi sono un motore di ricchezza che, sebbene mal distribuita, alla fine tocca un poco tutti, ed è quindi un elemento irrinunciabile. L’immigrazione, però, è un fattore distorsivo di questo meccanismo: infatti si esprime come tentativo di portare il benessere ai meno abbienti del terzo mondo portando il terzo mondo tra i più abbienti, e non funziona.

Perché non può funzionare. Perché i migranti non portano con se valore aggiunto, e quindi non possono riprodurlo altrove. Possono solo ingrossare le fila dei “poveri”, ed è questo che accade, stimolando forme di produzione economica inadatte al contesto sviluppato in cui sono collocate, dove dovrebbe prevalere il CAPITALE, la tecnologia, le competenze.
In altri termini: invece di esportare ricchezza, importiamo povertà.

La verità BRUTALE è che il benessere e la qualità della vita non coincidono con quello che appare tale ad un cittadino di una grande città del mondo occidentale, ma sono espressione di un rapporto strettamente individuale tra lo stile di vita e l’ambiente in cui il soggetto vive. La contaminazione occidentale ha distorto i sistemi di valori e lo stile di vita dei paesi del terzo mondo, inducendo una povertà diversa dalla precedente, molto meno sopportabile. Da qui la spinta alla migrazione.
Noi dovremmo “portare la ricchezza dove manca”, secondo alcuni, ma anche questa è una fantasia, perché la ricchezza è una astrazione, che si disloca dove le conviene, per crescere.
La ricchezza, la produzione di valore, sono forme di vita e come tutte le forme di vita cercano di riprodursi dove è possibile, e pensano solo a se stesse, non agli organismi ospitanti.
Sarà cinico dire che le popolazioni più povere del mondo debbono restare a casa loro, ma è un cinismo fondato sulla razionalità e sull’analisi delle cose per quello che sono.
Gli africani non possono diventare europei: debbono restare africani e migliorare la loro condizione di vita in maniera originale, adatta al loro ambiente, senza voler riprodurre modelli occidentali.
Il volerlo fare è stata la loro rovina nei secoli. Qui il razzismo non c’entra per niente: il nocciolo del problema non sta nella superiorità o meno di una popolazione rispetto all’altra ma nella DIVERSITA’ di tutte le popolazioni tra loro, e dei loro territori.

8 .Devastazioni ed epidemie, dalle locuste in Africa, al Sars-Cov-2 in tutto il mondo.
9. Globalizzazione della circolazione di merci e persone, ed interdipendenza sempre più stretta delle diverse economie, causa prima della diffusione di patologie vecchie e nuove su scala planetaria, di cui l’ultima pandemia è il primo esempio di impatto globale pesantissimo.

Il pianeta è da sempre soggetto a cambiamenti, anche drammatici, a cui la specie umana ha saputo, e dovuto, adattarsi, al prezzo di molte sue vite, per continuare nel suo millenario percorso di sviluppo.
Gli eventi climatici devastanti non sono una novità dei giorni nostri: ci sono sempre stati.
Oggi tornano le locuste a milioni, in Africa, oggi come secoli e millenni fa.
Nulla è cambiato. Siccità e inondazioni, epidemie devastanti, conflitti sanguinosi … Nulla è cambiato.
E non cambierà. E tuttavia lo scenario non è più il medesimo: la differenza sta nella nostra capacità tecnologica di spostamento rapido su tutto il globo, e non per pochi, ma per tutti. E questo non è, e non può essere, senza conseguenze. Sars-Cov-2, alias Covid-19 ce lo racconta. Ed altri prima di lui: altri virus di origine Cinese, AIDS africano, ecc.
Virus e batteri sono forme di vita a carattere endemico: come tutte le forme di vita trovano un ambiente di sviluppo favorevole e si annidano. Così un territorio ed una popolazione diventano il terreno di coltura per quei batteri/virus, in equilibrio con gli anticorpi di animali ed umani. E sono diversi in funzione dei territori e della loro distanza geografica.
Ma noi abbiamo accorciato le distanze: oggi il globo terrestre sta in tasca.
Ma ci siamo dimenticati che NON siamo uguali, anche se qualcuno lo pretende, e questa perfusione di popoli diversi porta con se anche i sui normali parassiti batterici e virali.
A cui non siamo preparati, se sconosciuti. E ci ammaliamo, e moriamo.
L’ultimo nato di Casa Cina ha sfondato le porte del mondo intero, acquistando una notorietà fuori del comune. E data la diffusione, pare che si trovi bene con tutti, che non sia schizzinoso.
Non c’è motivo, quindi, per cui non debba tenerci compagnia a lungo, con quel che segue.
Ma altri ne verranno dopo di lui. Il mondo va esplorato, e una volta aperta la via …

Questi sviluppi ci gettano in una crisi profonda. Se prima la povertà stava altrove, ed anche le malattie, adesso non più: entrano ambedue dal portone principale, per via aerea, e qualche volta via mare o via terra. Ma il nostro modello esistenziale non prevede uno stile di vita di tipo “asociale”, che non sia DI MASSA, ed il nostro modello è un invito ad un’orgia riproduttiva per i virus.
Possiamo sopportarlo? Forse no. Forse il modello di sviluppo globalizzato che ha preso piede destabilizza il pianeta vivente più di quanto sia sostenibile. Forse occorre un passo indietro, un ritorno a comunità meno aperte, più attente al pericolo della diversità oltre che al fascino della sua scoperta.

10. Crisi profonda e forse irreversibile delle democrazie, con lo sviluppo un poco ovunque di forme di governo autoritario che tendono a consolidarsi (Cina, Russia, Nordafrica, Venezuela, sono solo alcuni esempi, ma anche nelle democrazie occidentali l’autoritarismo tende a prendere piede, come in USA, Inghilterra, Austria, Spagna, Francia, Italia, ecc).

Governare la complessità del nostro mondo, con una presenza umana che supera gli 8 miliardi di umani, di cui solo 60 milioni in Italia, ma sempre troppi per le nostre risorse, sta mettendo in crisi un sogno sempre più logoro, la cui nascita facciamo risalire all’antica Atene: la DEMOCRAZIA.
Una democrazia mai veramente attuata, sostituita da simulacri a cui diamo quel nome, ma sempre meno attuata, sempre meno gradita. Perché la democrazia si sposa col benessere, con la serenità, con la ricchezza, con la sicurezza non insidiata.
E non è il nostro caso. Perché il nostro mondo è in crisi, sotto diversi aspetti, non ultimo quello sanitario.
E quando regna l’incertezza, la paura, la sfiducia nel futuro, vince l’autoritarismo, sino alla dittatura.
La gente SI AFFIDA a quello che vuol credere rappresenti la soluzione dei suoi problemi, deresponsabilizzandosi, ammettendo inconsapevolmente la propria incapacità di affrontare il problema, delegando tutto ad un terzo, che assume la veste sostitutiva di un Dio ormai obsoleto.
E gli aspiranti alla poltronissima non mancano mai: l’ambizione è un motore potente, che si accompagna anche al denaro, ma lo supera con l’esercizio del potere, una forma di libidine che eccede persino quella sessuale, da cui deriva. Salvini ha cercato di incarnare questa figura, con un qualche successo (mio capitano …) pur non avendo la figura carismatica che si presume un tale soggetto debba possedere.
Vero è che io non riesco neppure ad immaginare come potesse interpretarla Mussolini, eppure c’era gente che lo adorava, mentre a me pare una figura grottesca. E non è diverso Donald Trump, che tuttavia è stato acclamato dagli americani all’epoca della sua elezione. Più credibile forse Berlusconi, a suo tempo, col suo sorriso prestampato ed il fascino milionario alle spalle. La sola cosa che forse può salvarci dalla Dittatura, adesso, è l’assenza di dittatori credibili, a meno che Giuseppe Conte, col crocifisso in mano, non finisca con l’incarnare prima o poi un novello Gesù Cristo laico.

Speriamo di no.

Ing. Franco Puglia – 20 febbraio 2023

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