PENSIONI ED INPS
Ne ho già parlato diffusamente in passato, ma adesso il tema è tornato di grande attualità.
Il sistema “quota 100! viene fatto decadere e Draghi vuole tornare al sistema Fornero, con pensionamento a 67 anni di età, e non ricordo, ma è irrilevante, quanti anni di contribuzione. Si sprecano le rimostranze e le proposte: quota 102, quota 104, quota periscopio …
Non uno, a partire da Draghi, che avanzi una proposta di riforma STRUTTURALE, attesa da sempre. Ma partiamo dalle basi, dal “pensiero semplice”, contrapposto al pensiero complesso, ma disarticolato, che caratterizza il modo di ragionare di gran parte degli Italiani, e certamente di tutta la burocrazia statale e dintorni. La pensione è un pagamento rateizzato basato su alcuni decenni di contribuzione da parte del cittadino.
Per semplicità di comprensione, supponiamo che ogni cittadino, direttamente o attraverso la quota aziendale versata a valere sul suo reddito lordo reale, sia ancora il 33% (non ho controllato). Supponiamo che un cittadino abbia un reddito lordo di 3’000 € mensili su 12 mesi (36’000 € annui) e che versi all’INPS il 33%, cioè 1000 € al mese, 12’000 € all’anno. Supponiamo che effettui 30 anni di versamenti; supponiamo che in questi 30 anni l’inflazione sia pari a zero, ed il suo reddito sia costante.
Che pensione avrebbe maturato il nostro cittadino?
In 30 anni il cittadino avrebbe versato 360’000 € (12’000 x 30). Andando in pensione dopo 30 anni avrebbe diritto a ricevere 18’000 € all’anno per 20 anni, ad esempio. Poi basta. E 18’000 € sono il 75% di quello che fu il suo reddito da lavoro al netto di contributi per 30 anni (24’000 €/anno, 2’000 €/mese, che adesso diventano solo 1’500 €/mese).
E se il cittadino pensionato campa oltre quei 20 anni dopo il pensionamento?
Deve percepire di meno, per un periodo più lungo. Il cittadino inconsapevole, invece, si aspetta di percepire per un tempo molto lungo una pensione prossima al suo ultimo reddito da lavoro e con una anzianità contributiva non molto lunga.
Quota 100 era un buon compromesso, se inteso anche in maniera più flessibile, con età pensionabile a 60 anni, ad esempio, e 40 anni di contribuzione, oppure pensionamento a 65 anni con 35 anni di contribuzione. Ma con quanta pensione?
Perché il problema economico non è QUANDO vai in pensione, ma con quanti soldi, in rapporto a quanto hai versato. In astratto si potrebbe andare in pensione anche dopo soli 20 anni di versamenti, ma resta da vedere a che età e quindi con quale aspettativa di vita, e quindi con quanti soldi di pensione. Va detto tuttavia che, stante il fatto che il nostro sistema pensionistico è a ripartizione, e non ad accumulo, cioè i versamenti di oggi servono a pagare le pensioni di oggi, a fronte dei versamenti di ieri, ogni cittadino deve contribuire per un minimo di anni al fondo pensioni da distribuire, altrimenti non ci sarebbe capienza, tenuto anche conto della ridotta base contributiva a fronte di una elevatissima base distributiva di pensioni. Questi sono i termini del problema su cui ragionare.
La rigidità della politica sulle formule, invece, denota l’assenza degli elementi di base del ragionamento, che debbono partire da un calcolo razionale, attendibile, del valore della contribuzione all’INPS e quindi del valore di risparmio cumulato da restituire al contribuente. Già, perché la mia semplificazione, a scopo esplicativo, parte dall’ipotesi di reddito monetario costante e di inflazione zero, ciò che non è. INPS, nei suoi estratti conto, elenca gli anni e mesi di contribuzione, il reddito imponibile del cittadino e l’importo dei suoi versamenti. In queste cifre non figura alcun calcolo attuariale: i versamenti fatti 30 o 40 anni orsono non possono essere calcolati nel monte pensione da distribuire negli anni a parità di valore monetario. Questo anche perché i redditi attuali, su cui viene calcolato il 33% di contribuzione, sono redditi attualizzati, più o meno, agli anni di inflazione.
Nessuno guadagna in termini monetari le stesse cifre di 30 o 40 anni prima. Ecco, su questo INPS tace. Nessun cittadino sa COME viene calcolata la sua pensione a partire da quelle tabelle di estratto conto dei versamenti. Eppure questo metodo di calcolo è quello che conta veramente, perché da questo dipende tutto il resto.
Una volta stabilito in maniera indiscutibile ed obiettiva che il cittadino, dopo X anni di contribuzione, ha maturato un monte pensionistico Y, superata una soglia minima di età pensionabile (poniamo 30 anni) deve poter andare in pensione quando vuole, per sua autonoma scelta, con una pensione annua pari al rapporto tra il monte pensionistico accumulato e la differenza tra l’aspettativa di vita media e la sua età anagrafica. Se il cittadino vuole andare in pensione presto, affari suoi: avrà una pensione inferiore, per il resto della sua vita. Se preferisce lavorare a lungo, versando i contributi, avrà una pensione superiore, perché il monte contributivo cresce e verrà diviso per un numero di anni inferiore, ferma restando l’aspettativa di vita e crescendo l’età a cui il soggetto va in pensione.
E se un cittadino preferisce andare in pensione il più presto possible (fatta salva l’età minima stabilita) e poi continuare a lavorare senza versamenti INPS, quindi congelando la crescita del suo monte pensioni, perché no? Percepirà una pensione modesta e la integrerà col suo lavoro, sino a quando potrà, e poi continuerà a vivere con la sua modesta pensione, e con i risparmi eventualmente accumulati.
E va detto che, in seguito, le pensioni DEVONO essere adeguate secondo l’inflazione ufficiale, nella stessa misura in cui lo sono i redditi da lavoro, perché sono i contributi di chi lavora che sostengono i versamenti pensionistici.
Capite quindi che il VERO problema è l’incapacità dell’INPS di attribuire un valore sostenibile ai versamenti nel corso di decine d’anni. Il solo modo che sanno adottare è quello di confrontare entrate ed uscite, stimolando restrizioni sulle uscite, se le entrate non coprono le uscite, senza incidere sul valore individuale delle uscite, che forse sono calcolate male, creando sperequazioni tra chi percepisce pensioni forse troppo elevate e chi non riesce ad andare in pensione quando vorrebbe o dovrebbe.
Il problema è il CARROZZONE INPS, con il suo burocratismo incompetente. E la politica, di fronte ad INPS, si ferma, perché non è in grado di mettere le mani nei conti, ed INPS neppure glielo lascerebbe fare, anche perché, forse, se si potesse fare, una massa di persone si dovrebbe licenziare, a partire dai vertici.
Detto tutto questo, però, una VERA riforma strutturale dell’INPS, capace di rendere il sistema pensionistico strutturalmente in equilibrio, richiede alcuni interventi di dimensione epocale:
1. Separazione NETTA tra previdenza (restituzione dei versamenti a chi li ha effettuati) ed assistenza, ovvero sostegno economico a chi per diversi motivi non ha maturato una pensione ed ha diritto ad essere sostenuto dalla collettività nazionale.
2. Distribuzione del monte contributivo annuo (la somma di tutti i versamenti effettuati da chi lavora) a tutti i pensionati in essere, secondo le quote di ciascuno. Il concetto implica attribuire a ciascun pensionato una QUOTA del monte contributivo annuo, calcolata come rapporto tra il monte dei versamenti individuali accumulato, attualizzato, ed il monte complessivo dei versamenti di tutti i pensionati in vita. Questo significa percepire una pensione VARIABILE ogni anno, che sale se sale il reddito nazionale di chi lavora e versa contributi, e scende se cala il lavoro, e quindi la contribuzione.
3. Calcolare il valore attualizzato della contribuzione individuale ai fini pensionistici in maniera trasparente, chiara e comprensibile. Solo in questo modo si possono calcolare le quote individuali del monte contributivo previdenziale in maniera inequivocabile, accettando le variazioni di reddito che fanno parte della natura delle cose, perché il REDDITO FISSO è una distorsione introdotta dalla Sinistra, ma il reddito delle imprese, piccole o grandi, non è mai fisso, ed è quel reddito che viene distribuito ai dipendenti. Non vedo perché questo reddito non debba essere correlato con il reddito d’impresa, quindi variabile, e non vedo perché le pensioni, che gravanop su questo reddito, non debbano essere anche loro variabili.
Un discorso aparte vale per i dipendenti pubblici, il cui reddito dovrebbe, anch’esso, essere variabile, correlato alle entrate dello Stato, entrate a loro volta dipendenti dalla capacità di contribuzione fiscale di chi lavora e produce reddito per tutti. Tutto questo, che sarebbe il solo modo razionale, equo ed incontestabile di procedere, non si realizzerà mai; noi amiamo il privilegio, la sicurezza illusoria del posto fisso e del reddito fisso, le furbate, l’assenza di ogni trasparenza, il favoreggiamento delle lobbies, e chi più ne ha più ne metta.
In questo paese senza speranza tutto può solo andare sempre peggio, e fortunati coloro che, come me, tutto sommato, a conti fatti, hanno vissuto in tempi migliori.
Ing. Franco Puglia
28 Ottobre 2021